IL DOLORE CHE NON SE NE VA
por Bel Cesar em STUM WORLDAtualizado em 19/02/2009 10:16:02
Traduzione di Angela Li Volsi - [email protected]
Chi non si è mai chiesto: “Com’è possibile che questo mi faccia ancora soffrire? Avrei già dovuto essere capace di superare questo dolore!”
Quando affermiamo di non poter piú sopportare qualcosa, siamo sul punto di cambiare. Però, per liberarci del dolore che rimane, dobbiamo ancora fare qualcosa: permettere che esista prima che possa andarsene.
Il dolore che non se ne va è quello che non è stato sentito, visto e riconosciuto. Quello che fa male rivela in noi qualcosa che non ci piace guardare: il fatto di non essere stati visti nel modo come avremmo voluto. Né dagli altri, né da noi stessi!
Il dolore che non se ne va ha sete di attenzione ed empatia, per questo aumenta con le critiche e i giudizi altrui. Per avvicinarlo, dobbiamo lasciar perdere il desiderio di giustizia rivolto al passato e guardare verso il futuro. Se continuiamo ad alimentare i dispiaceri del passato, fatalmente li ritroveremo nel presente o nel futuro.
Però razionalizzare semplicemente il dolore non lo fa andar via. C’è in esso un certo carattere emozionale che lo nutre e lo fa crescere. Dovremo, perciò, usare un metodo affettivo: amare il dolore.
Non si tratta di assumere un atteggiamento masochista, ma, piuttosto, di accettarlo. Quando riconosciamo la nostra indignazione di fronte al dolore, saremo piú vicini alla nostra vera condizione interiore.
Come dice Naomi Remen, nel suo libro “As bênçãos de meu avô” (“Le benedizioni di mio nonno”): “Il dolore che non è sofferto si trasforma in una barriera tra noi e la vita. Quando non soffriamo il dolore, una parte di noi rimane prigioniera del passato”.
Molte volte, temiamo di entrare in contatto con certi ricordi che ci fanno soffrire. In realtà, la resistenza al dolore si rivela maggiore della sensazione originale. Abbiamo paura di sentirlo e di esserne distrutti, ma è sentendolo che si scioglie.
La proposta di questo testo è di ricordare che possiamo penetrare nel dolore e uscirne meglio di prima!
Dobbiamo sottolineare che questa proposta di penetrare nel dolore non significa qualcosa come buttarsi in un precipizio, ma di sentire il dolore appena per superare i pregiudizi e le resistenze nei suoi confronti. Ognuno, a suo tempo, sa come farlo per non perdersi nuovamente nel dolore. A questo fine, esiste un metodo da seguire: contornare il dolore finché tu sia pronto ad incontrarlo.
In tal modo, possiamo girare intorno al dolore, come si faceva anticamente la domenica nelle cittadine dell’interno, praticando il footing, quando i ragazzi e le ragazze si corteggiavano girando attorno alla piazza in direzioni opposte. Solo quando si sentivano pronti ad avvicinarsi si sedevano sulle panchine per conoscersi meglio. Come disse una mia zia, il secondo giro era una grande emozione, perché c’era la possibilità della conferma dell’incontro di sguardi...
A ogni giro, ci avviciniamo di piú alla nostra meta. Perfezioniamo lo sguardo. Mitighiamo le angosce che sorgono prima di entrare in contatto diretto con il nostro bersaglio.
Quando siamo calmi, ci avviciniamo naturalmente al centro, perché le barriere di difesa che lo circondavano non saranno piú cosí solide. Meno resistenti, non temiamo piú quello che prima ci faceva tanto paura. Quando comprendiamo il dolore, non siamo piú alla sua mercé. Possiamo liberarci del dolore man mano che riceviamo il messaggio che voleva mandarci.
Un detto buddista dice: “Non attaccarti, né respingere, allora tutto sarà chiaro”. Possiamo penetrare nel dolore senza perderci in esso. L’idea è di poterlo toccare con atteggiamento amoroso. Per questo, se nel sentire il dolore cominciano i discorsi mentali di rivolta nei suoi riguardi, è l’ora di uscirne di nuovo. È l’ora di fare ancora qualche giro attorno alla piazza per allentare l’ansietà, svuotare gli eccessi e farsi di nuovo coraggio.
Una volta che riusciamo ad avvicinarci affettivamente al nostro dolore, per quanto possa sembrare strano, lo lasciamo andar via.